«Vivere su una crosta sottile e instabile»
Nel quarantaduesimo numero del periodico «Zen Bow», pubblicato dal Rochester Zen Center, Sensei Amala Wrightson ci parla dello tsunami verificatosi nel 2004 come occasione per farci riflettere sul nostro rapporto con il pianeta e sulla visione dicotomica che ci ha portato a concepire la natura come qualcosa di esterno, ‘dentro’ il quale viviamo, e non come parte di organismo più ampio, di cui facciamo parte anche noi.
Sono passati, ormai, quasi 16 anni dal ‘terremoto di Sumatra’ eppure, l’impatto di quel fenomeno naturale è stato così devastante che lo ricordiamo ancora nitidamente.
La scossa di magnitudo 9.1 ha causato, infatti, circa 275.000 vittime in 14 paesi diversi.
Il messaggio di Sensei Amala parte da una premessa, ovvero quella che il suo ragionamento non è rivolto alle vittime, le quali non necessitano di parole ma di aiuti concreti, bensì a noi, che assistiamo impotenti a questi eventi e che, inevitabilmente, ci poniamo delle domande.
Sull’Herald, in occasione del cataclisma, fu pubblicato l’articolo di un giornalista che, digitando le parole ‘dio’ e ‘tsunami’ su Google aveva ottenuto più di 800.000 risultati. Sono proprio questi tragici avvenimenti, infatti, a far mettere in discussione le credenze personali, a far chiedere, a chi ha fede, «che tipo di Dio può permettere una cosa del genere?».
Nonostante la meccanica dell’evento sia chiara, noi esseri umani, di fronte a tali catastrofi, non abbiamo bisogno di sapere unicamente come avvengano, ne cerchiamo la ragione, ci chiediamo chi poter incolpare e perché. Si sarebbe potuto fare qualcosa? ci domandiamo. In questo caso la risposta è affermativa, degli avvertimenti più tempestivi o una risposta più coordinata avrebbero potuto salvare molte vite, tuttavia, la mancanza di contatti utili e la preoccupazione per il settore turistico ha fatto sì che in molte aree nessuno intervenisse per mettere in sicurezza le persone che si trovavano lungo la costa. Questo ci dimostra quanto la nostra mancanza di consapevolezza possa trasformarsi in tragedia.
Allo Yala Wildlife Park, in SriLanka, gli animali, percependo la catastrofe imminente, si sono trasferiti a un’altitudine maggiore, salvandosi dalle onde. Di storie simili ce ne sono tante, ad esempio in un resort in Tailandia gli elefanti hanno barrito fino ad allontanare tutti i presenti dalla spiaggia, salvando loro la vita. Stessa cosa è accaduta nelle Isole Andamane, dove le tribù antiche sono riuscite a leggere i segnali di pericolo e ad allontanarsi dalle coste. Sfortunatamente, la maggior parte delle persone ha perso, al giorno d’oggi, la sensibilità che deriva dal vivere per molte generazioni in un luogo, dall’osservarne da vicino i ritmi.
Siamo ormai abituati a immaginare la natura come una forza esterna, da contrastare. Questa tendenza è ben rappresentata da una foto simbolo dell’accaduto, in cui un giovane è stato immortalato all’interno di una gigantesca onda, «Uno Contro la Natura», questa la didascalia scelta. Il ragazzo, rintracciato dal reporter e intervistato, circa una settimana dopo l’avvenuto, ha detto che quando è stato travolto dall’onda si è reso conto che l’unico modo per sopravviverle non era combatterla, ma assecondarla.
È proprio questo nostro percepire la natura come una nemica ad aver amplificato gli effetti distruttivi dello tsunami. Friends of the Earth, una rete di associazioni ambientaliste attiva in 69 paesi, ha sottolineato che la distruzione delle foreste di mangrovie e delle barriere coralline, perpetuata per costruire alberghi, autostrade e allevamenti di gamberetti, ha notevolmente incrementato le conseguenze devastanti del terremoto in alcuni luoghi della Tailandia.
Queste riflessioni ci fanno capire che sono necessari grandi miglioramenti, che le nostre tecnologie avanzate in alcuni casi ci agevolano la vita ma che le azioni, o inazioni degli esseri umani sono anche responsabili dell’aggravamento della sofferenza causata dai fenomeni naturali.
Gli eventi naturali si verificano a causa delle dinamiche della nostra Terra, a causa della sua composizione. Noi esseri umani e tutti gli altri esseri sensienti viviamo su una crosta instabile molto sottile, sopra una massa ribollente di roccia fusa. Sfidare la natura, non rispettarne i ritmi significa, a tutti gli effetti, ‘giocare con il fuoco’.
La Terra su cui viviamo è instabile. È in piena tensione. Ma è proprio questa tensione che dà vita a tutto. Se non fosse per questa instabilità, non ci sarebbe alcuna forma di vita. Abitiamo una Terra semiliquida, un pianeta che scorre e cambia, incredibilmente vivo, per niente statico. La nostra Terra ci insegna costantemente lezioni, attraverso eventi devastanti come terremoti e tsunami: ci possono essere creazione, movimento, sviluppo, solo quando c’è distruzione.
Ricordando le parole di Buddha: la vita intera nasce da una condizione di non equilibrio. Non c’è altro modo di vivere. E chiunque abbia esperienza di un corpo non può evitare la morte, la perdita. Siamo noi esseri umani a chiuderci, a restringere i nostri cuori e ad aggrapparci a ciò che immaginiamo essere solido e affidabile, perché terrorizzati dalla prospettiva della perdita.
Come impariamo a convivere con il potere della Terra? Nel suo libro Living with the Devil, Stephen Batchelor dice:
«La stessa Terra che può lasciarti stupefatto mentre contempli il suo dispiegarsi disinteressato, ti distruggerà senza malizia né misericordia se le sue placche tettoniche dovessero spostarsi sotto i tuoi piedi. Sublimemente indifferente alle nostre speranze e paure, la vita ci spinge alla morte, non importa quanto tenacemente ci aggrappiamo ad essa».
Tutto ciò che possiamo fare è accettare le circostanze, qualsiasi esse siano.
Condividiamo le parole di Sensei Amala, credendo contengano preziosi spunti di riflessione sul nostro odierno modo di percepire la natura e il pianeta, sempre maggiormente considerati come fonti di inesauribili ricchezze da sfruttare e prosciugare e non dimore da proteggere e abitare con cura e rispetto.
Dovremmo, invece, iniziare a considerarci come un «inter-essere», per riprendere il termine coniato dal Maestro Thich Nhat Hanh, valorizzando, e non recidendo, lo stretto legame che ci connette a ogni cosa esistente e accogliendo l’esistenza nella sua interezza, accettando che anche il dolore ne faccia parte.
Sensei Amala Wrightson, nata a Auckland nel 1958, è un’insegnante Zen. Lei e il marito Richard hanno cominciato a praticare nel 1982, dopo aver partecipato a un workshop tenuto da Roshi Philip Kapleau in Svezia. Nel 1986 diventano allievi di Roshi Bodhin Kjolhede, erede di Roshi Kapleau’s Dharma e abate del Rochester Zen Center. Amala Sensei diventa, nel 1989, residente a tempo pieno a Rochester, per la sua formazione. Dal 2003 investe il suo tempo nella creazione di un centro in cui sia possibile dedicarsi alla pratica Zen a Auckland. Continua, ancora oggi, a visitare annualmente il Rochester Zen Center ed è membra dell’American Zen Teachers’ Association (AZTA). Autrice, insieme a Kathryn Argetsinger, del libro Finding Your Seat: A Zen Handbook (2020), a cui è liberamente ispirato questo articolo.
Leggi l’articolo originale: https://www.rzc.org/wp-content/uploads/2020/09/zen-bow-summer2020-compressed2.pdf